"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

giovedì 25 novembre 2010

Le automobili Fiat sono così brutte perché Marchionne guadagna troppo

Ancora Fiat, ancora Marchionne.
Questa volta sul tema di Mirafiori, riportato da un articolo del sole24ore di oggi, ospitiamo con piacere un contributo di Francesco Varanini , impegnato come noi, con linguaggio e argomentazioni innovative, a proporre punti di vista diversi di ciò che ci sta accadendo intorno, sopratutto nelle aziende. Sottotitolo dell'articolo: Estetica e globalizzazione. Luoghi, non luoghi e scelte di management

Uno dei principali campi di libertà aperti all'azione del manager è la scelta dei luoghi dove produrre.
Ma il manager, oggi, è malauguratamente al servizio di un solo stakeholder: la finanza, nelle sue
diverse incarnazioni. La finanza, disinteressata alla produzione, chiede solo un abbassamento dei
costi. La scelta del luogo è fatta in base al costo.
La produzione, però, non è indifferente rispetto al luogo. Latino producere: 'condurre innanzi',
'portar fuori'. La ricchezza è frutto della produzione. La finanza non crea ricchezza – mentre la
produzione è creazione di ricchezza.
Possiamo chiederci dove stia -in questo quadro- l'etica.
La lezione di Adriano Olivetti



Partiamo da Adriano Olivetti. Ma per andare oltre. Non è una regola generale, ma per principio,
diffido dei personaggi che piacciono a tutti. Quando un personaggio diventa un mito, è opportuno
avvicinarsi con cautela. Ma è indubbio che Adriano Olivetti ha fatto qualcosa di diverso. Non
possiamo non ricordarcene nel mentre guardiamo alla cultura d'impresa italiana, osservandone i
limiti e la scarsa originalità. Osservandone la passiva sudditanza agli stereotipi del management.
Evito di tornare su quello che troppe volte è stato scritto. Mi soffermo su alcuni punti chiave.
Ivrea, 24 dicembre 1955, vigilia di Natale: Adriano Olivetti parla ai dipendenti riuniti nel Salone dei 2000. Ricorda il passato. “Verso l'estate del 1952 la fabbrica attraversò una crisi. Le macchine si accumulavano ne magazzini di Ivrea e delle Filiali, a decine di migliaia. L'equilibrio tra spese eincassi inclinava pericolosamente. A quel punto c'erano solo due soluzioni: diventare più piccoli, diminuire ancora gli orari, non assumere più nessuno; c'erano cinquecento lavoratori di troppo, taluno incominciava a parlare di licenziamenti. L'altra soluzione era difficile e pericolosa: instaurare immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace. Fu scelta senza esitazione laseconda via”.
È “il più grande sforzo costruttivo ed espansivo che la nostra ditta abbia intrapreso”, “frutto di un
calcolo ottimista dell’avvenire della nostra economia”. “Una partita a scacchi nella quale si gioca
l'avvenire della nostra fabbrica, dove è in gioco il futuro dei vostri figli”.
In quel1955 l'Olivetti aveva inaugurato stabilimenti in diversi luoghi. Tra cui lo stabilimento di
Pozzuoli. E' un avvenimento di speciale rilievo storico e culturale: il lavoro, la fabbrica moderna,
sono portati nel Sud d'Italia. Lì si cercano maestranze adatte. In quegli anni, contraria è la strategia
della Fiat - che sposta enormi masse proletarie verso Torino. Solo alla fine degli anni sessanta
l'industria automobilistica -non la Fiat, ma l'IRI (dobbiamo riconoscere alle Partecipazioni Statali il merito di una responsabilità sociale, che forse dovrebbe avere anche l'impresa privata)- progetta un insediamento al Sud. La prima Alfasud esce dallo stabilimento di Pomigliano d'Arco nella primavera del 1972.
Ma torniamo a Pozzuoli, e al '55: della selezione del personale, per precisa scelta di Adriano
Olivetti, è incaricato un giovane intellettuale attento alla psicologia e alla sociologia, Ottiero
Ottieri. Olivetti ha posto un vincolo preciso: 'Non tener conto delle raccomandazioni'. L'esperienza sarà narrata da Ottieri in un notevole romanzo autobiografico, Donnarumma all'assalto (1959).
Dove però già nella prima pagina il protagonista chiarisce la sua posizione: “Io non sono il
direttore. Sono un impiegato qualsiasi”. E nella seconda ribadisce: “Non sono il direttore. Sono un
impiegato addetto all'ufficio del personale”. Non è facile farsi carico dell'onere morale legato al
ruolo. Non è facile assumersi responsabilità. Che riguardano la scelta delle persone. E la
conoscenza e il rispetto del luogo.
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Ecco qui la differenza: da un lato, assumersi le responsabilità del dirigente, dall'altro il voler essere
'un impiegato qualsiasi'. Il manager che si pone al servizio dello stakeholder più facile da servire –
può essere, di volta in volta, la politica o la finanza- è, in fondo, un impiegato qualsiasi. Mentre
accettare che esistono diversi stakeholder, e accettare che tra questi si debbano considerare i
lavoratori, significa assumersi responsabilità da classe dirigente.
Possiamo dire, con pieno fondamento, che Olivetti considera i lavoratori stakeholder, portatori di
specifici interessi da comprendere e da rispettare. Ed è mosso dalla convinzione che l'azienda possa e debba non solo interagire con l'intorno -l'ambiente, il luogo-, ma che debba anzi consapevolmente influire sull’assetto sociale della comunità locale: la vita e la crescita dell'impresa sono anche la vita e la crescita di Ivrea come di Pozzuoli.
L'azienda è, nel rispetto della diversità dei ruoli e delle responsabilità, una costruzione comune.
Comune: 'che compie il suo incarico (munus), insieme (cum) altri'.
Il valore, da Dante a Marchionne
Possiamo dire: 'l'automobile italiana è diversa da un'automobile tedesca'. Ci risulta evidente che
questa differenza esiste. E che questa differenza ha a che fare con il valore.
Il valore, scriveva Dante (Convivio, IV trattato), si può intendere in più modi, ma il punto di
partenza è intenderlo come “quasi potenza di natura, ovvero bontà da questa data”. Quindi è
connesso con il luogo, perché la natura è diversa da luogo a luogo. Il valore, ci dice Dante nella
canzone che apre il trattato, “vien da una radice”: c'è quando l'uomo è “felice” “in sua operazione”.
Il lavoro, diceva non a caso Primo Levi nella Chiave a stella, costituisce “la migliore
approssimazione concreta alla felicità sulla terra”. L'opera -anche qui l'etimo ci soccorre- è 'il
lavoro di una giornata', il lavoro che cresce giorno dopo giorno, e resta fedele a una sua radice e
perennemente si trasforma.
Il valore dipende da ciò che l'uomo fa in un dato luogo, in un dato momento - è legato al luogo e al
modo di produzione. Dante cita esplicitamente l'Etica di Aristotele. Dobbiamo chiederci come
intendere oggi la relazione tra valore, ai tempi di Marchionne, quando la produzione è sradicata dal luogo.
Producendo automobili in Polonia, o in Serbia o a Pomigliano o a Melfi, si producono le stesse
automobili? Il valore del prodotto è lo stesso?
Tra le numerose recenti dichiarazioni di Marchionne, cito questa, che mi pare esemplare: “Io vivo nell'epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi
interessa”. Come dire: globalizzazione dei mercati, della finanza, delle merci e del lavoro dettano le regole. Non resta che inchinarci, anzi: non resta altro da fare che -in quanto manager- farci interpreti ed esecutori di queste regole.
Quali ragioni possiamo opporre alle ragioni di Marchionne? Se per Dante valeva l'etica di
Aristotele, a quale etica possiamo fare riferimento oggi? Come si ri-definisce il luogo di
produzione, e quindi la costruzione del valore, in un contesto dove il comando della finanza impone di de-localizzare, in un contesto dove il luogo di produzione è una variabile dipendente da scelte compiute nel non-luogo della finanza?
Luoghi e non luoghi
Leggo sull'iPhone che ho in mano: “Designed by Apple in California Assembled in China” Dove è
finito il Made in? Ognuno di noi ha in mente l'immagine del prodotto costruita artificialmente da
copywriter e comunicatori di professione, ma anche l'immagine dei bambini che producono, in
Cina, in India, in Pakistan, in Indonesia, in Vietnam, in stabilimenti che è impossibile visitare,
palloni e scarpe sportive per noti marchi.
Un dato di fatto: oggi si produce in un non luogo e poi si localizza.
Non importa dove si produce 'fisicamente'. Ciò che conta è far apparire il prodotto come se fosse
prodotto in un luogo. Spogliato da rapporti con un reale luogo, il prodotto è progettato in modo da
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portare con sé l'aura di un luogo virtualmente ricostruito. Sciolto ogni legame 'fisico' con un luogo,
si lavora per imporre artificialmente al frutto della produzione una legame 'metafisico' con un luogo comune. Al luogo 'reale' è infatti sostituita una figura banalizzata: l'Italia delle gondole dei
mandolini, di Venezia e di Napoli fuse in una unica città ideale dell'Advertising. Una narrazione
messa in scena in spot diffusi dal Broadcasting televisivo. L'Italia eco delle gesta della nazionale di
calcio, l'Italia culla del cibo mediterraneo, l'Italia delle dimore di ricchi anglosassoni sulle colline
toscane, l'Italia di Capri e di Taormina. Nella migliore delle versioni l'Italia eco del Rinascimento.
Si evoca in ogni caso un luogo che non c'è. Il Made in Italy è l'appello all'immaginario, la
costruzione di un legame tra prodotto ed un luogo che non c'è. L'Italia del Made in Italy è un sogno creato da copywriter e da giornalisti.
Risulta evidente che questo immaginario può essere venduto da chiunque, non solo dagli italiani.
Accettare di essere conosciuti attraverso simili immagini è rinunciare ad essere se stessi. Non si può essere radicati in un non luogo. Il non luogo è un furto di identità.
Cultura e produzione
Il prodotto è, nelle intenzioni del manager-come-si-deve, localizzato, mentre la fabbrica, invece, è, nelle intenzioni del manager-come-si-deve, privata del proprio luogo. Il manager-come-si-deve pretende che il luogo sia indifferente, Tychy in Polonia, o Pomigliano, o Mirafiori.
Pensa che norme per organizzare il lavoro valgano allo stesso modo in contesti culturali e sociali
diversi. Basta una breve narrazione.
Ho lavorato per anni a Verona, nella Direzione del Personale di un grande sito produttivo. Bisogna sapere che a Verona, nella stagione della vendemmia, gli operai chiedono le ferie. Se non sono ferie sono permessi. Se non sono permessi saranno giornate di malattia, ma anche -atteggiamento che trovo di grande valore simbolico, e certo più etico della malattia programmata- donazioni di sangue:
si dona il sangue per poter fruire in concomitanza della vendemmia di giorni di riposo, che sono in
realtà di secondo lavoro, secondo lavoro che è nel sangue, radicato nella cultura.
Ma questo il manager-come-si-deve non vuole vederlo, non sa vederlo, non può vederlo: non
importandogli nulla di cosa e come pensa un operaio, per lui un operaio veronese o bergamasco, di Pomigliano d'Arco, Mirafiori o Tichy uguali sono. E programma così la produzione come se la
cultura non esistesse.
Eppure, anche se le regole organizzative in base alle quali si produce sono le stesse, anche se le
specifiche tecniche e gli strumenti di controllo sono gli stessi, se è diverso il luogo, è diverso il
modo ed è diverso il risultato, perché è diversa la cultura del lavoro.
Luogo per luogo, cultura per cultura, il punto di partenza dal quale si inizia a formare un operaio è differente, il punto di arrivo al quale si può arrivare è differente. Il manager-come-si-deve vede in questa differenza un difetto da minimizzare. Eppure nella differenza tra un italiano, un polacco e un cinese sta un valore che può essere portato alla luce.
Dall'antro buio al paesaggio
Se il luogo dove si produce, la fabbrica, la sede dell'industria, finisce per essere intesa come un non luogo, un luogo situato non-importa-dove, è anche per un vizio di origine.
Troviamo in Omero l’espressione busso-doméuein: ‘costruire in profondità’, ‘dedicarsi a
macchinazioni segrete’. Il latino ne offre un parallelo, probabilmente una traduzione letterale: endo-(‘all’interno’, ‘di nascosto’) -struos, da cui industria.
Già in latino industria sta anche per ‘diligenza’ e poi ‘attività’. E poi nelle lingue moderne il senso
si allarga: ‘assiduità’, ‘abilità’, ‘capacità’, ‘skill’,‘professione’, ‘arte’, ‘mestiere’.
Ma il senso più strettamente legato al luogo del produrre resta in qualche misura sempre toccato
dall'originaria accezione greca e latina. Potremmo dire che lo struere, ‘costruire’, è viziato
dall'endo-. Così come una certa lettura vuole che il lavoro sia sofferenza, fatica, dolore, un certo
modo di leggere la produzione, da Omero a noi, un diffuso atteggiamento, vede la fabbrica,
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l'industria, il sito produttivo, come un antro buio, un luogo segreto e sotterraneo. Un 'sotto luogo',
un sottomondo dal quale è buono e giusto tenersi lontani.
Perciò accade che la la fabbrica possa essere ubicata indifferentemente a Tychy in Polonia, o
Pomigliano, o Mirafiori o in qualsiasi luogo dell'estremo oriente. In Cina o in Pakistan o in Corea.
Perché già in origine l'ubicazione della fabbrica è negata. Perché la fabbrica non è,
nell'immaginario, ubicata in un luogo visibile, in luogo che non sta sulla terra, ma è ubicata invece
un sotterraneo 'non luogo'. La fabbrica è vista come bruttura da nascondere, da cancellare. E'
simbolicamente cancellata così dalle mappe del mondo che ci è permesso di vedere – come certi siti militari.
Acquista per contrappasso grande rilievo -contrappasso al tradizionale 'sotto luogo' e al moderno
'non luogo'- la visione di Adriano Olivetti: la fabbrica di Pozzuoli affacciata sul verde, immersa nel
paesaggio. Un paesaggio indiscutibilmente italiano.
L'estetica dell'esserci
La fabbrica è il luogo dell'esserci e della cura: dell'essere insieme, attivamente all'opera, impegnati nella comune costruzione di ricchezza. Essere nel tempo e in un luogo: essere quando e dove serve.
Cura: sollecitudine, grande ed assidua diligenza, vigilanza premurosa, assistenza. Inquietudine: nel senso di preoccuparsi, farsi carico, non prendersela comoda.
Acquista così un profondo senso etico il rispetto dei tempi, dei turni, e la partecipazione
all'organizzazione: necessità vitali, intimamente legate alla produzione, e quindi al perseguimento
nella personale realizzazione attraverso il lavoro.
La fabbrica, così intesa, ha luogo. Sta in un posto preciso, perché lì stanno le persone al lavoro.
Antichissima la radice indoeuropea stha-: ‘stare in piedi, momentaneamente fermo’. Status: ‘atto
dello stare fermo’. Statione: ‘stare fermo’, e quindi il ‘luogo’, il ‘posto’, da cui sia la stagione, il
'fermarsi in un luogo' che la stazione, il 'luogo di sosta'. Di qui non a caso anche stabilimentum.
origine ‘appoggio’, ‘sostegno’. Da qui anche costo: dall'‘essere stabile’ emerge il ‘valore’.
In questa ottica possiamo rileggere il vizio d'origine che ci fa intendere la fabbrica come luogo
sotterraneo, dal quale tenerci lontani. In questa ottica l'immagine della forgia, dell'officina del
fabbro, buio antro illuminato dalla fiamma, trova il suo riscatto.
E' l'officina di Faust, è il laboratorio dell'alchimista. E' il luogo della poiesis, creazione di ricchezza,
luogo virtuoso dove si realizza la necessaria trasformazione alchemica della materia prima in
prodotto finito. Non è luogo che debba restare segreto, ma invece luogo dove il segreto -le nostre
tecnologie, il nostro sapere distintivo, le nostre conoscenze- può manifestarsi e tradursi in risultati.
E' il luogo, anche simbolico, della produzione: Producere: 'condurre innanzi' il processo di lavoro,
la 'lavorazione'; 'portar fuori': la fabbrica è il 'dentro' necessario a 'portar fuori' la ricchezza implicita nelle conoscenze e nei materiali.
Troviamo qui il legame tra la produzione e l'estetica. L'estetica è allo stesso tempo atteggiamento e punti di vista. E' l'atteggiamento ed il punto di vista di chi consapevolmente lavora, produce, crea ricchezza. L'estetica nasce nel luogo dove si lavora, si produce, si crea ricchezza. Asthetés: colui 'che sente, percepisce'. Aisthetikós colui 'che ha la facoltà di sentire, percepire'.
Bello e buono
Dove sta il bello. Il bello è intrinsecamente, originariamente legato, al bene e al buono. Bello:
'carino', diminutivo di buono. Bene: 'in modo buono'. Buono: secondo l'etimo: 'fornito di doni o
virtù'.
Il bello, se non è finzione, se non è artificiosa costruzione di una apparenza vendibile, inganno
dell'Advertising, è un prodotto 'fatto bene', frutto della consapevole azione del lavoratore, dell'“uom
felice in sua operazione”. E d'altro canto, in modo complementare, il prodotto 'bello', 'fatto bene', è
il prodotto che soddisfa concretamente le attese del cliente, è lo strumento che lavora con lui.
Dunque il bello, il bene, il buono, non sono che aspetti, sfaccettature della qualità complessiva.
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Qualità che si identifica con ciò che considerano valore i lavoratori ed i clienti. I lavoratori vedono
il valore nel compenso che ricevono, ma non solo, vedono il valore nella possibilità di realizzare se
stessi attraverso il lavoro. Analogamente, i clienti vedono il valore non solo nell'utilità materiale, e
nel rapporto tra prezzo e qualità, ma anche nel valore d'uso.
Gli oggetti maneggevoli ed usabili, che accompagnano l'uomo nella sua quotidianità, hanno una
loro intrinseca bellezza, intrinsecamente legata al buon funzionamento. Può essere bello solo un
buon prodotto. Può essere bella solo l'automobile, comoda, sicura, durevole, maneggevole, dal
giusto prezzo. Il rapporto tra etica ed estetica sta qui: è, in fondo il legame virtuoso tra la persona
'fornita di doni o virtù' e il prodotto, o bene, o servizio 'fornito di doni o virtù'.
L'etica come ottica e il malocchio della finanza
L'etica è un ottica, un punto di vista, un modo di guardare. O meglio, l'etica è il luogo di incontro di diverse ottiche. L'ottica del lavoratore, l'ottica del cliente, l'ottica del finanziatore, l'ottica della
comunità locale con la quale l'industria interagisce, l'ottica del paese, l'ottica di chi vive in ogni altro luogo del mondo.
Potremmo aspettarci che i manager -buona classe dirigente- lavorassero per trovare un punto
d'incontro tra le diverse ottiche. Ma no. Il manager-come-si-deve è al servizio di un solo padrone: la finanza. Questa è la globalizzazione: “ the process enabling financial and investment markets to operate internationally, largely as a result of deregulation”. Deregulation da parte di stati e organismi sovranazionali significa, per tutti, essere assoggettativi alle regole della finanza
globalizzata e globalizzante.
Marchionne è il campione. La dottrina Marchionne, il suo vivere “dopo Cristo”, si riduce a questo:
subordinare la produzione, e quindi il bello, il bene, il buono, a quello che conviene ad un solo
attore: la finanza, nelle sue diverse incarnazioni. La finanza definisce gli obiettivi e l'ambito
d'azione. Niente può esulare da questo quadro. Niente di più e di diverso può e deve essere visto.
La finanza, in origine, è legata all'idea di fine: allo stesso tempo, 'scopo' e 'senso del limite'. Lo
scopo nativo della finanza è sostenere la produzione. Il limite, sta nella consapevolezza del rischio e della vanità insiti nella continua accumulazione di ricchezza destinata solo a generare altra
ricchezza.
Non possiamo non rimarcare la divaricazione. L'azienda produttiva vive della presenza, del
perseguimento di uno scopo. L'attività finanziaria -che pure denominiamo con una parola che ci
parla di scopo, e di senso del limite- si sviluppa e si alimenta e si gonfia, sempre più astratta, priva
di altro scopo che non sia la propria esistenza. Senza fine, senza un attimo di respiro. Ricchezza
virtuale.
Sotto il tallone della finanza
Anche i competitori globali della Fiat sono costretti ad operare su un mercato dominato dalla
finanza. Ma evidentemente a loro la qualità e il valore dell'automobile, il bello e il buono
interessano di più. Se non fosse così, non sarebbe così evidente la differenza tra un'automobile
tedesca e un'automobile italiana.
Possiamo, a ragion veduta, dire che, da un punto di vista etico, Marchionne guadagna troppo, visto le brutte automobili che la Fiat produce. Ma possiamo, a maggior motivo, dire che la Fiat fa brutte automobili perché Marchionne guadagna troppo.
Quando c'era Valletta le automobili della Fiat erano più belle, più ricche di valore percepito da
lavoratori e da clienti. Valletta guadagnava venti volte più di un operaio della Fiat. Non era troppo lontano. Riusciva a capire, gli interessava capire, come pensa e come vive un operaio. Dedicava tempo all'organizzazione del lavoro, della produzione. La sua retribuzione dipendeva dal consenso dei sindacati, era dunque consapevolmente pagato anche dagli operai. E al contempo era pagato da chi comprava automobili Fiat. Considerava importante l'opinione dei clienti, degli automobilisti.
Marchionne guadagna quattrocento volte quanto guadagna un operaio. E' troppo lontano da operai e
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clienti. Non ha tempo per loro. Non gli interessa capire come pensa e come vive un operaio, né
come coltivare e portare a valore le conoscenze dell'operaio. Dedica tempo innanzitutto agli
investitori finanziari. Il suo scopo non è, in realtà, vendere o produrre automobili. Il suo scopo è
rispondere alle aspettative del mercato finanziario. E' pagato non da operai e da clienti, ma da
rentier -famiglia Agnelli, investitori di borsa, banche, operatori del mercato finanziario: banche,
società di rating- in fondo come lui disinteressati alle automobili.
Agli investitori finanziari, ai percettori di reddito legato al valore di borsa -tra cui sta anche la
famiglia Agnelli, e sta lo stesso Marchionne- importa ben poco dove sono prodotte le automobili,
importa ben poco come sono prodotte le automobili. Importa ben poco produrre automobili che
siano giudicate buone dai clienti. Importa solo che, con artifici contabilità o di comunicazione, il
titolo faccia bella figura in borsa.
Il fatto che la Fiat di Marchionne produca automobili non è che un accidente, una infausta
coincidenza. Si potrebbe anzi dire che Marchionne ha motivo di disprezzare per le automobili. Ha
motivo di essere indispettito perché il comparto produttivo automotive è meno redditizio dal punto di vista finanziario di altri comparti, come elettronica, o energia.
La lezione di Nishida: basho
Nei primi anni del Ventesimo Secolo, a partire da tradizioni filosofiche molto differenti, in luoghi
lontanissimi l'uno dall'altro, grandi pensatori ragionano sul senso dell'esperienza, ragionano attorno alla necessità di allontanarsi dagli scivolosi terreni della metafisica, e dai cieli dei modelli
trascendenti: bisogna tornare al 'puro sguardo', al 'lasciar parlare le cose', senza imporre loro un
senso estraneo. Edmund Husserl a Gottinga, William James a Harvard, Kitaro Nishida a Kyoto.
A Nishida mi avvicino con cautela. Difficile cogliere il senso di un pensiero che viene da un luogo
così lontano. Ma credo che sia utile a tutti noi questo sguardo nutrito di cultura buddista e Zen. Del resto, nessuno sguardo filosofico, già cent'anni fa, era così attento a cogliere il senso di ciò che oggi chiamiamo globalizzazione, e a indicarcene i rischi.
Pur consapevoli di fermarci alle soglie di un pensiero sottile e raffinato, ci appare evidente che
Nishida ci fa apparire grossolano e ipocrita l'ideologia marchionnesca.
Non ci può essere produzione, non ci può essere etica ed estetica, non c'è bello, né bene, né buono
se non c'è basho.
Basho: dove, ubicazione, posto, topos, terra, focolare, base materiale e allo stesso tempo spirituale.
Non radici alle quali siamo vincolati, ma luogo che abitiamo. L'esperienza che in ogni istante
stiamo vivendo si situa in un qui. Solo se c'è basho c'è impresa e organizzazione che le persone
possono intendere come dotata di senso.
Sensazioni, percezioni, corpo, contribuiscono al fenomeno emergente. Il fenomeno è questo, si
manifesta così, solo in questo istante e solo in questo luogo. La produzione ha senso perché produco
qui o lì, comunque in un luogo. Così era per Adriano Olivetti. Così dovremmo pensare oggi alla
produzione italiana: il Mande in Italy ridotto ad apparenza vendibile non porta con sé nessun valore etico, estetico, economico.
Solo se il basho -per sé e per gli altri, ognuno il suo basho- è accettato e vissuto, è possibile un
pensiero globale che non resti affermazione vuota. Ed è possibile una produzione che tragga valoredal luogo.
Francesco Varanini

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