"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

venerdì 28 gennaio 2011

L’insensatezza dell’insegnare competenze


Credo che non vi sia cosa più facile del dimostrare che ogni tentativo di insegnare competenze sia insensato. Anche se alla parola ”insegnare” si sostituisce la parola “formazione”, anche se si tratta di una formazione attiva, sempre insensato rimane. Anzi diventa paradossale.

Non è neanche difficile far accettare intellettualmente ai managers delle risorse umane questa dimostrazione.
Quello che è difficilissimo è far sì che la convinzione intellettuale si traduca in modalità di sviluppo radicalmente diverse (non solo professionale) delle persone. Il baraccone dei corsi è così tranquillizzante … Inoltre la sua difficoltà di gestione conferisce identità: il riuscire a gestirlo fa sentire bene la sera. Ma se si scopre che si sta gestendo un baraccone inutile, anzi generatore di guai, si perde identità …



Comincio a parlare di acqua e vino. Immaginate un grande recipiente pieno d’acqua. Immaginate di versare un bicchiere di vino in quest’acqua. Cosa accade? Il vino non se ne sta certo buono in un angolo del recipiente rimanendo gelosamente uguale a se stesso, pronto ad essere richiamato con tutte le sue caratteristiche originarie qualora servisse.  Il vino, invece, è molto “comunitario”: si disperde nell’acqua, cambiando se stesso e l’acqua.
Il vino è una cosa ben definita, visibile e, dopo tutto, semplice!

Ora, un corso di formazione ha la pretesa che una competenza (molto meno semplice del vino) sia una cosa che può essere trasferita dalla mente del docente a quella dell’allievo e se ne rimanga isolata nella stessa mente, senza farsi contaminare dal resto dei “pensieri” del discente, pronta ad essere richiamata come un programma quando serve. Senza farsi contaminare neanche dalle altre competenze.

E’ una pretesa assurda. Le ragioni sono così tante che è difficile descriverle tutte. Ma credo che la metafora dell’acqua e del vino le renda evidenti. 
Ne specifico alcune. 
E’ ovvio che le competenze vengono annacquate dagli altri pensieri. E’ ovvio che le competenze interferiscono tra di loro. E’ ovvio che questo annacquarsi e interferire non è prevedibile. E’ ovvio che se insegno una competenza diventa impossibile prevedere che competenza viene incastonata nel sistema di pensieri del discente. Certo la competenza originale non è richiamabile …
Conclusione: tutti i corsi che pretendono di insegnare competenze producono risultati imprevedibili che non si può neanche sapere se costituiscono un miglioramento (dal punto di vista) dell’impresa e dell’organizzazione.


La formazione “attiva” recepisce questi problemi e non si pone il problema dell’insegnare le competenze, ma di farle emergere durante il corso di formazione. Ma così si cade dalla famosa padella nell’altrettanto famosa brace. Il fare emergere competenze comporta affermare l’importanza del contesto. L’intensità del processo di emersione, la qualità del risultato ottenuto, dipende dal contesto che è un contesto di significato per quelle competenze. Ma allora questo significa che tanto più emergono competenze intense, tanto più queste hanno senso solo nel contesto in cui sono nate. Allora non possono essere trasferite. Quando i discenti ritornano nel loro contesto lavorativo non riescono a metterle in pratica. Anzi si accorgono che hanno poco senso e generano speso ostilità, soprattutto verso i Capi.

Non ho ovviamente esaminato tutti gli aspetti del problema delle competenze. Ad esempio non ho citato il problema del loro numero. Quaglino, anni fa, usando il modello “sapere, saper fare, saper essere”, ne ha individuate più di duecento. Di fonte a duecento competenze rilevanti che si fa? Si fanno duecento corsi? Come non ho esaminato questo problema, non ne ho citato anche molto altri …

Ma quanto ho detto credo basti a dimostrare che occorre pensare ad una formazione radicalmente diversa ... Ma quale?

 Francesco Zanotti

1 commento:

  1. Note molto interessanti, provocatorie e soprattutto oneste.
    La nostra cultura viene da un’impostazione riduzionista che si può leggere in moltissimi aspetti.
    Nella scienza dove pensiamo
    • si possano usare gli stessi modelli per fenomeni diversi cambiando solo il significato delle variabili (es. invece di preda e predatore si considerano venditore e cliente per il modello di Lotka-Volterra fino a sofisticazioni dell’econofisica e delle ottimizzazioni);
    • sia adottabile l’ipotesi omogenea per cui gli stessi agenti a cui applichiamo modelli sono ritenuti uguali che ha portato, per esempio, ad una farmacologia contro una malattia oggettiva indipendentemente da chi la ha (a meno di dosature e istruzioni) e processi didattici di insegnamento di competenze a studenti concettualmente indifferenziati; modelli sociali da esportare perché ottimi, come la democrazia con i peace keeper;
    • si possano usare modelli cognitivi della memoria basati sul concetto del ritrovare piuttosto che del ricostruire come nelle scienze cognitive, ecc.

    Figuriamoci se la didattica che viene da una tale impostazione non prevede l’acquisizione ed uso del modello trasferito riproducendo l’idea di riprodurre, cioè copiare, un programma da un computer all’altro.
    L’impostazione riduzionista ci permette approcci rozzi come forzare imponendo vincoli, distruggere e interferire con altri fenomeni. Non abbiamo una teoria generale di tali processi e fenomeni, non abbiamo una teoria generale dell’emergenza.
    Come insegnare competenze? Fornire procedure da adottare e riprodurre è veramente un approccio di tale passato iniziato dal principio dell’ipotesi della tabula rasa e proseguito nella divisione disciplinare. Intendiamoci, può essere adeguato per problematiche tecnologicamente delimitate, semplici, specifiche e senza contesto. Inoltre è quello usato per le discipline per costruire, non formare, specialisti disciplinari. Il grande equivoco è scambiare la necessità della conoscenza disciplinare con la sua sufficienza ormai invece inadeguata nella scienza moderna che tratta problemi non efficacemente modellizzabili con un solo approccio nell’ottica che esiste e si deve trovare il migliore. I problemi non sono più quelli della leva, del pendolo, della trasmissione del calore e del motore a scoppio. Questa scienza ha permesso la nascita di problemi nuovi, detti della complessità, come quelli degli ecosistemi, dei sistemi biologici e dei comportamenti collettivi che vanno a ridefinire concettualmente problemi che ci eravamo adagiati a considerare risolti con le competenze precedenti quali le transizioni di fase, la cura delle malattie e problemi dell’economia.

    Facciamo i conti con quella teoria che ci manca. In attesa di teorie adeguate potremmo procedere con approcci misti, con la ‘formazione attiva’ per indurre negli studenti emergenza nei singoli differenti contesti concettuali di ogni persona, con la propria storia, il proprio contesto, proprie problematiche, ecc. (altro che ipotesi omogenea!), della semantica d’uso e rappresentazione di quello che è stato comunicato con semplificazioni oggettive e cioè i punti di partenza semplificati e condivisibili. Altri approcci riguardano il considerare scenari, illustrare casi e storie, (non solo da parte del docente, ma da far raccontare per condivisione, poi per rappresentazione e critica concettuale) e usare giochi e simulazioni.

    Ormai i problemi sono almeno interdisciplinari, riconosciamo l’uno nell’altro.

    Sulle teorie si sta lavorando. E se si provasse a far emergere una nuova formazione, ‘attiva’ come si dice nell’articolo, almeno con approcci misti, mai ripetibili, che continuano sul campo come le valutazioni post-occupative introdotte in architettura con cui si valutano gli effetti di un’architettura su chi la abita e la ha abitata? Almeno un po’ di feed-back concettuale.

    Occorre iniziare la strada.

    Intanto forse non tutti ancora condividono la necessità di percorrerla …

    Gianfranco Minati

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