"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
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mercoledì 30 gennaio 2013

Non si possono governare i comportamenti


di
Francesco Zanotti

Il primo problema è che non è possibile predefinire tutti i comportamenti necessari a far funzionare l’organizzazione formale. Non è possibile proceduralizzare tutto. Se fosse possibile, si potrebbe automatizzare i processi produttivi e di servizio. Questa difficoltà di proceduralizzazione, di formalizzazione dell’organizzazione cresce a mano a mano che i prodotti e i servizi diventano più complessi: una crescente a discrezionalità decisionale e comportamentale è sempre più inevitabile.

Per un istante, si può pensare di risolvere la questione attraverso i Capi: sono loro che localmente e nei singoli momenti potrebbero suggerire i comportamenti più efficaci ed efficienti agli Operativi. Ma la tentazione svanisce immediatamente: una supervisione diretta “totale” non è realizzabile.
Ragionamento ineccepibile, anche se la supervisione diretta è una tentazione permanente di moltissimi capi. E’ figlia della convinzione profonda di molti Capi che loro saprebbero fare meglio il lavoro. Che, a sua volta, è figlia della scelta di nominare capo chi ha la migliore capacità operativa.
Ma supponiamo pure (per assurdo, ovviamente) che la supervisione diretta sia possibile. Anche accettando questa ipotesi, la sfida del controllo ottimizzante dei comportamenti non sarebbe possibile. Ci si scontrerebbe con la soggettività (e i limiti) dei Capi.
Intendo dire che i Capi suggerirebbero quei comportamenti che derivano dalla loro visione dell’organizzazione, ma cosa garantirebbe che possiedono la visione “corretta”?

Si può scegliere la via degli obiettivi.

Si definiscono gli obiettivi da raggiungere e si lascia esplicitamente libertà di comportamenti. E’ la via in realtà oggi seguita. Ma ha inconvenienti gravissimi. Il primo è che il controllo funziona solo ex post. Quando gli obiettivi sono stati raggiunti o non raggiunti. Se non sono stati raggiunti si prendono provvedimenti, ma è come chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.
Ma vi sono anche altre ragioni più profonde. La prima è che imponendo ad un gruppo di persone obiettivi dall'esterno si impongono al gruppo stesso i limiti di visione e di speranza di chi ha imposto. Il secondo è che l’insieme di tanti comportamenti scelti individualmente non potrà certo essere ottimale. Sarà un guazzabuglio che potrà generare non solo il non raggiungimento degli obiettivi, ma anche tanti altri guai. Ovviamente speso anche visibile solo in tempi lunghi. Quando non solo i buoi sono giù usciti dalla stalla, ma la stalla stessa è diventata decrepita.

Questo ragionare ci porta a rileggere il problema del cambiamento.
Se nel progettare un cambiamento non è possibile arrivare a progettare i comportamenti, cioè i determinanti dei risultati di una organizzazione, allora significa che chi progetta il cambiamento può progettare solo il contesto nel quale poi le persone sceglieranno i comportamenti. Ma non si riesce a sapere come un cambiamento di contesto cambierà i comportamenti. In pratica: una gestione direttiva del cambiamento non è possibile perché una organizzazione ha una sua irriducibile autonomia. Una gestione direttiva del cambiamento fa risuonare l’organizzazione viva (l’insieme delle persone) che producono un sistema di comportamenti non predicibile.

Il problema è sapere se questo risuonare autonomo produce una sinfonia o una cacofonia. Meglio: obiettivo del processo direzionale è quello di far sì che dal processo di emergenza nasca sempre una sinfonia.

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