"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

domenica 29 marzo 2015

Anche scrivere la Divina Commedia è “decidere”?

di
Francesco Zanotti


Dobbiamo piantarla con le parole ”valigia” dove ci mettiamo tutto il contrario di tutto. E quando le usiamo siamo certi di essere nel giusto, forse anche profeti. In realtà non ci chiediamo mai cosa vogliano dire perché altrimenti non sapremo rispondere alla domanda. Il risultato sono discorsi banali, carichi di retorica, non di senso.

“Decisione” è una di questa parole. Andiamo sostenendo che il governare è decidere. E, forti di questa certezza traiamo conclusioni.
Bene sono conclusioni sbagliate perché il “maneggiare” e il governare, non sono decidere.
Cominciamo a dare un significato a “decidere”. Significa che chi governa e maneggia è di fronte a alternative etero costruite tra le quali scegliere: prendo questo o quella strada .. scegliendo tra strade che già esistono. Oggi il maneggiare e il governare sono (e sono sempre stati) processi cognitivi diversi. Sono processi progettuali: non vi sono strade già costruite, siamo in un mare aperto di potenzialità che dobbiamo concretizzare in strade di sviluppo. Come diceva il poeta: la strada si fa con l’andare.
In termini “tecnici” la differenza tra e decidere progettare è che la prima operazione è calcolabile, mentre la seconda no! Progettare il futuro, scrivere la Divina Commedia non sono processi di calcolo.

Allora piantiamola di parlare di decidere. Di sostenere che tutto è decisione, compreso lo scrivere la Divina Commedia. Piantiamola con quel maneggiare e governare caricaturale che è costituito dalla ideologia della decisione. Non abbiamo bisogno di retorica, ma di nuovi sensi.

venerdì 27 marzo 2015

Aerei, test e comunità

di
Francesco Zanotti

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Supponiamo che il drammatico incidente aereo di tre giorni fa sia stato causato da desideri autodistruttivi del co-pilota, cosa che, che come dice Gilberto Corbellini sul Sole 24 Ore di oggi, è tutt'altro che definitivamente provata.
Come si pensa di affrontare l’evenienza che si manifestino questi comportamenti autodistruttivi? Le aree attualmente considerate sono due: le norme di sicurezza e i test psico-attitudinali.
Certamente servono, ma sono condizioni necessarie, non sufficienti. Quello che manca è la costruzione di comunità di significato. Oggi le imprese costruiscono solo gruppi di funzionamento lasciando ad ogni persona il “peso” di assegnare un significato esistenziale al ruolo funzionale che deve coprire. E’ necessario trasformare i gruppi di funzionamento in comunità di significato. Intendo dire che il gruppo di lavoro deve diventare un luogo in cui le persone insieme elaborano il significato di quello che fanno. Se le comunità sono così intense, sono lo strumento migliore per evitare l’emergere di disagi psicologici rilevanti ed evidenziarli appena si manifestano: le comunità sono il luogo privilegiato in cui si manifestano. Le persone comunicano i propri disagi alle loro comunità di riferimento.
Se le imprese non favoriscono la trasformazioni in comunità di significato, aumentano le possibilità di nascita del disagio, del suo consolidarsi nel silenzio e nell'esplodere in comportamenti che devono essere socialmente distruttivi perché la comunità degli altri che non è capace di vedere il disagio della persona, finalmente se ne accorga. Si costringono le persone che provano disagio a comunicarlo attraverso urla di terrore.
Allora il costruire comunità di significato è l’ennesimo nuovo adempimento che si aggiunge ai mille altri?
No! Le comunità di significato hanno anche prestazioni operative molto migliori dei semplici gruppi di funzionamento.
Ovviamente le comunità di significato non sono importanti solo all'interno delle imprese, ma sono importanti anche comunità di clienti che danno significato, al di là delle funzionalità, ai prodotti ed ai servizi. E le comunità di stakeholder che danno significato sociale all'attività di impresa.
Allora da domani vedremo tutte le imprese a preoccuparsi di costruire comunità di significato? No, continueranno a limitarsi a test e procedure. Per costruire comunità di significato occorre una cultura manageriale radicalmente nuova che mette in ridicolo la figura del manager decisionista che, oramai è solo un creatore di guai. Ma i manager non possono accettare una nuova cultura: sono stati “allevati” col mito del merito, dell’essere bravi. Ora dovrebbero dire che il loro essere bravi andava bene nel passato. Dovrebbero accettare per essere bravi oggi devono imparare cose nuove e dirigere in modo radicalmente diverso. La loro debolezza esistenziale impedisce loro di rischiare un passo di questo tipo.


mercoledì 25 marzo 2015

La cellula e la persona

di
Francesco Zanotti



Scrive Pier Mario Biava nel capitolo “Il logos e l’origine della vita”, pag. 184 in “Il senso ritrovato”
a cura di Ervin Laslo e Pier Mario Biava:
“Una cellula epatica, se decontestualizzata e posta per esempio in vitro, non sarebbe in grado di «capire» il «significato» di tossico, in quanto le mancherebbero i collegamenti con la rete da cui derivano tutte le informazioni utili per la significazione.”.
L’uomo è certamente più complesso di un cellula. Questo significa che le conclusioni del Prof. Biava valgono a fortiori.
In termini generali, formazione, “cantieri” di cambiamento e attività di gestione delle risorse umane creano situazioni “in vitro” dove le persone interpretano la realtà in modo completamente diverso dal modo in cui la interpretano nel “corpo organizzativo” in cui lavorano.
In più, creano connessioni, sviluppano competenze che hanno senso solo nel contesto in cui si sono sviluppate.
Questo significa che interpretazioni, connessioni, valori e competenze non possono essere trasferiti.
Per essere ancora più espliciti, quando una persona torna nel gruppo di lavoro, dopo essere stato “processato”, ad esempio, da un intervento di formazione, non riporta nell'organizzazione quello che ha “imparato” in quel gruppo. Torna indietro certamente un po’ diverso, ma questo significa solo che deve ricominciare a ricostruire interpretazioni, valori e competenze nel suo contesto lavorativo. Con sua grande delusione, perché si attendeva che il mondo idilliaco costituito dal contesto formativo, reso più piacevole e gratificante da un formatore che ha il suo bell'interesse a farlo, si sarebbe automaticamente trasferito nel suo contesto naturale di lavoro.
Ma di tutto questo ai manager non cale: the show (il teatrino della formazione e del cambiamento) must go on … Meglio il conosciuto (anche se non funziona) piuttosto che la ricerca di qualcosa di diverso, anche se funziona di più. Lo show di oggi deve continuare come è sempre stato.


sabato 21 marzo 2015

Mai domande “vere”! Solo certezze inconsistenti.

di
Francesco Zanotti

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In tutte le aree di conoscenza esistono questioni aperte; cioè cose che non si sanno. E programmi di ricerca, cioè percorsi alla fine dei quali si spera di trovare le risposte alle domande senza risposta.
Tranne che nel management.
Lì esistono solo certezze.
E le certezze riguardano … qualche piccolo esempio critico.

Riguardano le scienze cognitive. Quale consulente o manager ammetterebbe che non si sa neppure esattamente cosa voglia dire apprendere? Ognuno ha una sua visione di cosa sia l’apprendimento sulla quale scommetterebbe la vita. Peccato che queste visioni siano l’una differente dall'altra. E non abbiano nulla a che vedere quello che la scienza ha scoperto.

Riguardano la sociologia. Nel banale senso che la sociologia è del tutto assente. Banalmente, non si considera la dimensione del lavorare insieme. Se non nella forma primitivissima della scienza delle reti.

Riguardano l’antropologia. Chi non parla di cultura? Se sentite un manager ed un consulente vi diranno certamente che, alla fine, il problema è di cultura. Ma non azzardatevi a chiedere cosa sia la cultura, come si sviluppa una cultura e che c’entra questo svilupparsi con i processi di relazione sociale (il lavorare e lo stare insieme).

Insomma: il management è costituito da certezze solo soggettive che prescindono dai risultati delle scienze. Ma, allora le certezze sono solo banali autorappresentazioni, quindi, sciocchezze scientifiche? La risposta è: sì! Con buona pace di chi spera (e paga per comprarle) che queste sciocchezze aiutino a recuperar la capacità di produrre cassa delle imprese.


mercoledì 18 marzo 2015

La sicurezza insicura

di
Francesco Zanotti


Il costruire sicurezza è un progetto di cambiamento. Chi guida questo processo dovrebbe usare, in coscienza, tutte le migliori conoscenze e metodologie per costruire quel particolare cambiamento che si chiama maggiore sicurezza.
Invece … la coscienza va a ramengo … chi si occupa di sicurezza non si occupa di cambiamento. E finisce per usare metodologie che si basano, ad esempio, su di una visione della cognizione dell’uomo che è ancora quella del cane di Pavlov. Tralasciando tutti gli altri approcci alla cognitività e tutto il resto delle scienze umane. Da parte sua, chi si occupa di cambiamento usa solo una piccola parte delle aree di conoscenza rilevanti. Ancora una volta, ad esempio, qualche brandello, divulgato male, di scienze cognitive.
Perché così duro? Perché, fino a che sono le imprese che vanno in malora, chi se ne frega (forse). Quando c’è di mezzo la vita umana, se ne vada a casa (non in malora, per carità) chi non usa le migliori conoscenze e metodologie di cambiamento disponibili.

Mi piacerebbe tanto essere smentito e dileggiato da qualcuno che mi dimostra che egli, invece, usa tutto quello che di rilevante al tema della sicurezza la conoscenza umana ha prodotto.

domenica 15 marzo 2015

Tradire l’impresa

di
Francesco Zanotti


Titolo forte, ma realistico.
Cosa è l’impresa? E’ un attore che costruisce il suo ambiente di riferimento. E’ uno degli attori che costruiscono la società. Se una impresa “conserva”, allora si distacca da una società che non sta certo ferma e perde di senso.
Chi sono gli attori che dentro l’impresa innovano o osservano? Solo le persone. Se le persone cercano di conservare la loro identità e il loro ruolo, allora anche l’impresa conserva.
Il problema strategico di fondo, allora, è come riuscire far sì che le persone continuino a rinnovare se stesse per rinnovare, tutte insieme, le imprese e la società.
Le politiche delle risorse umane dovrebbero avere questo grande obiettivo: tener vivo il processo di rinnovamento continuo delle persone e dei gruppi di persone.
Per raggiungere questo obiettivo, però, è necessario usare tutte le migliori conoscenze (la competizione fondamentale è una competizione sulla conoscenza) necessarie: dalla scienze cognitive, alle psicologie, alla sociologia all’antropologia. Oggi, però, esse non vengono utilizzate. Un solo esempio: si insite ancora sul concetto di “apprendimento”, quando è oramai evidente che la persona umana non apprende, ma ricostruisce continuamente il suo bagaglio di risorse cognitive.
Ecco spiegato il titolo: il rifiuto delle conoscenze suddette, che è l’architrave (sì, caro lettore, hai capito bene: siamo ridotti al fatto che l’architrave sia un rifiuto) delle attuali politiche delle risorse umane si configura come un vero e proprio tradimento nei confronti dell’impresa, della sua capacità di creare valore” ed occupazione.
Ma l’Amministratore Delegato non ci chiede queste cose, mi si può obiettare. Rispondo: ci mancherebbe lo facesse. Tocca ai manager HR proporre innovazione sulle Risorse Umane, non all’Amministratore Delegato. Il non proporre innovazione è la colpa “duale” al rifiutare la conoscenza.



giovedì 12 marzo 2015

Prendete un libro e scoprirete …

di
Francesco Zanotti

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Prendete un libro, anzi una mezza pagina di quel libro … E ve la traduco anche: non potete rifiutarvi.
Il libro: “The management Mith” di Matthew Stewart. Interessante anche il sottotitolo “Eliminare la moderna filosofia del Business”.
Prendete a pag. 132.
L’autore presenta una sintesi del pensiero manageriale di autori famosi in diverse epoche: Mayo, Ouchi, Peter e Waterman. Anche Gary Hammel.
La sintesi suona così: “Il management riguarda le persone. Prestare attenzione alle persone, incoraggiare il lavoro in gruppo e aiutare ogni persona a raggiungere una certa soddisfazione psico-fisica sono buone cose. Indubbiamente fanno parte del lavoro di un manager efficace.”  Credo che tutti saranno d’accordo. Credo che pochi manager saprebbero dire di più …
E veniamo al giudizio dell’autore su questa filosofia manageriale. Innanzitutto fa una sintesi della sintesi “Tutta la filosofia precedentemente descritta (pur breve) può essere ulteriormente sintetizzata: se voi siete carini con gli altri, gli altri saranno carini con voi.”.
E, dopo questa sintesi della sintesi, arriva il giudizio: “Sono precetti senza tempo, fondati sull’etica, appena appena al di sopra della tautologia e che emergono naturalmente dall'esperienza di esseri umani che sono circondati da altri esseri umani. Non sono e non sarà mai una “scoperta scientifica”.
Cioè: il management è fatto di banalità.
Il problema è che non smettiamo di insegnarle (spendendo un sacco di soldi). E non certo perché servano, ma perché difendono i manager dalla fatica di studiare il complesso delle conoscenze che servono a gestire esseri umani. Se sono quelle le conoscenze manageriali, allora io, manager, le padroneggio alla grande. Posso continuare a cullarmi nell'illusione di far parte della categoria degli eletti, figli prediletti di quale dio molto minore, che hanno il diritto innato di “comandare”.

Detto questo, però, evviva i corsi sulla leadership: hanno la preziosa funzione di ammortizzatore sociale per tanti ex manager improvvisatisi docenti di conoscenze più eteree dell’aria.


domenica 8 marzo 2015

Prima o poi … come Paul Krugman …

di
Francesco Zanotti

… ci dobbiamo chiedere perché insistiamo a scrivere questo blog. Sembra inutile.
Infatti, ripetiamo la nostra tesi:

Formazione, “cantieri” di cambiamento e attività di gestione delle risorse umane
sono “specializzazioni” che rompono l’organizzazione in frammenti autoreferenziali che ne compromettono efficacia, efficienza e sviluppo …

Davvero si moltiplicano le prove a suo sostegno in moltissime scienze naturali ed umane.
Purtroppo, però, vediamo che si fa pochissimo per smetterla con le pratiche dannose di cui sopra.
Ovviamente nessuno contesta apertamente la nostra tesi: funziona molto meglio la cortina del silenzio. E se le imprese sono sempre meno gestibili, si trova più conveniente trovare una scusa di bassa lega (gli incapaci ad esempio) piuttosto che mettere in discussione il passato.
Ma se questo è il successo che stiamo ottenendo presentando in mille sfaccettature questa tesi, perché non la piantiamo?
Leggendo stamattina un articolo di Paul Kugman (Premio Nobel per l’economia, non uno qualunque) sul Sole 24 Ore, mi si è allargato il cuore.
Anche lui è propositore di una tesi (dimostratissima dai fatti) che troppi non considerano: il buttare nel mercato moneta non aumenta l’inflazione, mentre le politiche di austerity generano recessione. Tutti, però, anche nel suo caso, sono legati ancora a quello che lui chiama il culto inflazionista.
E cosa si dice quando gli viene la tentazioni di piantarla di urlare nel deserto? Si dice che anche se non si riuscirà a convincere i suoi nemici intellettuali, con il diffondere le sue idee farà il vuoto intorno a coloro che oggi le osteggiano senza alcuna ragione.
Anche noi … continueremo. E a pensarci bene, potremmo fare anche qualcosa in più …
In realtà il nostro mestiere principale è costituito dalla strategia e dalla finanza. E’ guardando da quell'osservatorio (che è quello del top management), che si capisce fino in fondo quanto siano dannose le attuali (quelle più retoricamente osannate) pratiche di gestione delle risorse umane e delle organizzazioni. Sono dannose perché impediscono l’innovazione strategica e l’implementazione dei progetti che realizzano l’innovazione strategica. Allora il top management sarà il nostro migliore alleato nel cambiare teorie e pratiche, alla fine, troppo ingenue, infantili.


giovedì 5 marzo 2015

Un Rating dei Progetti di Sviluppo delle risorse umane

di
Francesco Zanotti


E’ questo il quarto anno in cui assegniamo un Rating il Business Plan delle Società degli indici FTSE MIB e Star di Borsa italiana.
Il nostro lavoro è finalizzato a tutti coloro che hanno un qualche interesse allo sviluppo delle imprese: shareholder e stakeholder. Il loro interesse è ovviamente rivolto al futuro di queste imprese. Il documento che descrive il futuro di un’impresa è il suo Business Plan: un Business Plan povero genererà un futuro povero, un Business Plan alto e forte genererà un futuro alto e forte.
Allora il Rating del Business Plan è un servizio a shareholder e stakeholder perché permette loro di capire la qualità del Business Plan dell’impresa che sta loro a cuore. E chiedere con forza che questa qualità sia migliorata laddove, invece di alta e forte, fosse banale.
Una componente fondamentale del Business Plan è  Il “Progetto di Sviluppo delle risorse umane”. Il progetto di sviluppo del “motore” dell’impresa.
Allora assegneremo un Rating anche ai Progetti di Sviluppo delle Risorse umane.
Con che metodologia? E’ fondata su due capisaldi. Per illustrarli mi si lasci usare la metafora del motore.
Innanzitutto, valuteremo se questo motore utilizza lo stato dell’arte delle conoscenze disponibili. Se oggi un motore “vero” non usa l’elettronica non può essere un buon motore. Se oggi nel gestire le il motore delle risorse umane non si usa lo stato dell’arte delle conoscenze rilevanti non si costruisce un buon motore.
Secondariamente, valuteremo se il motore viene messo a servizio del movimento fondamentale dell’impresa. Cioè della progettazione strategica. Più dettagliatamente, nello sviluppo del Business Plan quale è stato il ruolo delle risorse umane?


domenica 1 marzo 2015

Nei Business Plan non si parla delle persone

di
Francesco Zanotti


E’ oramai il quarto anno che studiamo i Business Plan delle società degli indici FTSE Mib e Star di Borsa Italiana per assegnare loro un Rating.
Questi Business Plan rivelano quale sono le preoccupazioni del Top Management. Tra queste preoccupazioni non vi sono le risorse umane. In questi Business Plan non si parla, se non per citazioni sporadiche, delle attività di gestione delle risorse umane.
Due possibili interpretazioni
La prima: il Top Management è insensibile all'importanza delle risorse umane.
La seconda interpretazione: al di là della retorica, chi si occupa di risorse umane non riesce a spiegare esattamente perché sono “strategiche”. Anzi continua a proporre attività (Formazione, “cantieri” di cambiamento e attività spicciole di gestione delle risorse umane) che rompono l’organizzazione in frammenti autoreferenziali che ne compromettono efficacia, efficienza e sviluppo …
Per quale interpretazione propendete?
Io per la seconda. E la maggioranza? Credo per la prima, anche se non vedo il fenomeno che si dovrebbe scatenare se davvero tutti propendessero per la prima: un veloce abbandono di tutte quelle retrive imprese che non credono nel ruolo strategico delle risorse umane. Banale opportunismo o anche il crescere piano piano della convinzione che la seconda interpretazione proprio sbagliata non è?